biografiaSceneggiatrice e regista indipendente, Helen Doyle è una delle co-fondatrici del collettivo Vidéo Femmes di Quebec - che festeggerà il suo 50° anniversario nel 2023 - nell’ambito del quale dirige e produce documentari di grande impatto sulla condizione femminile. Nel 2000 fonda la sua casa di produzione Tatouages de la mémoire. I suoi film hanno ottenuto numerosi premi in Canada e all’estero, in particolare Soupirs d'âme (Sospiri dell’anima) (2004), premiato al FIFA, al Festival di Créteil e al Golden Sheaf Awards di Yorkton, e Dans un océan d'images, j'ai vu le tumulte du monde (2014) vincitore del premio come miglior film canadese al FIFA nonché di tre premi Gémeaux e una Étoile della SCAM. E’ beneficiaria nel 2008, della prima sovvenzione per la carriera cinematografica, dal Consiglio delle arti e delle lettere del Quebec (CALQ). Nel 2009, il suo lavoro è stato oggetto di una retrospettiva alla Cinémathèque québécoise. Nel 2015 è stato pubblicato il libro Helen Doyle, cinéaste: La liberté de voir, che comprende diversi testi e quattro DVD. All’indomani dell’odissea è la sua quattordicesima opera, tra mediometraggi e lungometraggi.
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nota di intenti
«Al mondo mancano amore, giustizia e bellezza...».
Letizia Battaglia
Che dire della genesi di Au lendemain de l’odyssée, di una ricerca iniziata sette anni fa, su un tema che mi ha spesso richiesto di adeguarmi, costantemente, al ritmo e alla trasformazione del fenomeno migratorio? La pandemia avrà anche affievolito il mio slancio ma in fondo sapevo che non potevo permettermi di abbandonare tutto, non potevo permettermi di rinunciare, non potevo tacere, per il solo motivo che avevo visto tutto con i miei occhi!...
Tutto è iniziato con il mio viaggio in Sicilia per incontrare Letizia Battaglia, fotografa coraggiosa e determinata nella sua lotta contro la mafia. È lì che mi sono imbattuta in una situazione raccapricciante: l’arrivo di un flusso impressionante di minori non accompagnati. Viaggiando attraverso l’Europa, avevo già notato la presenza di giovani uomini provenienti da tutto il mondo e naturalmente la domanda si faceva sempre più incalzante: «Ma dove sono le ragazze?». Venni a sapere dell’esistenza di reti mafiose organizzate. «In Italia, l’80% delle donne vittime di sfruttamento sessuale, proviene dalla Nigeria», si legge su Le Monde diplomatique (Mathilde Harel, novembre 2018).
Dal 2008 al 2014, la fotografa Elena Perlino, ben nota ai «Rencontres de la photographie en Gaspésie», percorre l’Italia da nord a sud, documentando la vita delle donne vittime di sfruttamento sessuale. Nello stesso periodo viene pubblicato il libro Le Ragazze di Benin City, scritto da Isoke Aikpitanyi e dalla giornalista Laura Maragnani.
Elena e Laura hanno svolto un ruolo importante nell’indicarmi la strada da percorrere per la mia ricerca, iniziata nel 2016, proprio nel momento in cui la situazione è diventata ancora più drammatica, con una crescente domanda di ragazze sempre più giovani...
Dopo una serie di incontri, ho scelto di concentrarmi sulle testimonianze di tre giovani ragazze: Stéphanie, che grazie all’intervento di alcune donne al suo arrivo in Italia, è sfuggita alla tratta. Joy, caduta nelle grinfie dei trafficanti, ma che con coraggio è riuscita a fuggire e a chiedere aiuto e per completare il quadro, la voce della seconda generazione, quella di Sabrina Efionayi, desiderosa di scrivere e pubblicare la propria storia.
Tre storie positive, una scelta precisa. Ciò non significa ignorare il fatto che, oltre a queste donne, ne esistano altre, murate nella loro sofferenza, ancora intrappolate nei tentacoli dei trafficanti. Non dobbiamo dissimulare né evitare la dimensione inaccettabile della tratta.
Durante tutto il viaggio - da Roma, a Catania, da Castel Volturno a Palermo - attraverso le proposte della società civile e le iniziative di associazioni come NewHope, Action Women, BeFree, ho scoperto il vero significato della parola accoglienza- intesa come amore nel ricevere l’altro. L’ho appreso guardando queste donne italiane andare incontro alle persone, accogliendole, ascoltandole, prodigandosi in ambienti modesti, assolutamente convinte del potenziale di queste giovani che arrivano «a pezzi» ma con una grande forza vitale.
E a Palermo- città di sperimentazione e di resistenza - ho incontrato l’autrice e attivista Alessandra Sciurba che è indiscutibilmente in sintonia con il leitmotiv della mia ricerca quando dice, dopo un salvataggio in mare: «E loro ci salvano!».
Nel trattare questi temi ho voluto evitare a tutti i costi la dimensione sensazionalistica e «vittimistica», così come i riferimenti all’angelismo, altrettanto rischioso. Quando si affrontano temi così delicati, le insidie sono dietro l’angolo. Ma nonostante la serietà dell’argomento, volevo che il mio documentario fosse luminoso, che non spegnesse la speranza.
Quando vedo il modo in cui queste donne italiane guardano queste giovani, al di là dello spirito di sorellanza, noto ammirazione, fiducia e umiltà; mi aiutano a riscoprire il vero significato di «intermediarie», nel loro offrire un momento di benessere, un momento di incoraggiamento, poiché loro certamente conoscono la forza di queste giovani ragazze che portano con sé dei sogni e possono trasformare e arricchire il volto delle nostre società.
Per questo progetto, e spinta da questa riflessione, mi sono posta la sfida della scrittura poetico-politica, non per fare un film dal forte impatto, ma piuttosto per rivolgere un invito ad una riflessione collettiva, all’incontro con l’Altro, nella sua unicità, con la U maiuscola, di «Umano».
Letizia Battaglia
Che dire della genesi di Au lendemain de l’odyssée, di una ricerca iniziata sette anni fa, su un tema che mi ha spesso richiesto di adeguarmi, costantemente, al ritmo e alla trasformazione del fenomeno migratorio? La pandemia avrà anche affievolito il mio slancio ma in fondo sapevo che non potevo permettermi di abbandonare tutto, non potevo permettermi di rinunciare, non potevo tacere, per il solo motivo che avevo visto tutto con i miei occhi!...
Tutto è iniziato con il mio viaggio in Sicilia per incontrare Letizia Battaglia, fotografa coraggiosa e determinata nella sua lotta contro la mafia. È lì che mi sono imbattuta in una situazione raccapricciante: l’arrivo di un flusso impressionante di minori non accompagnati. Viaggiando attraverso l’Europa, avevo già notato la presenza di giovani uomini provenienti da tutto il mondo e naturalmente la domanda si faceva sempre più incalzante: «Ma dove sono le ragazze?». Venni a sapere dell’esistenza di reti mafiose organizzate. «In Italia, l’80% delle donne vittime di sfruttamento sessuale, proviene dalla Nigeria», si legge su Le Monde diplomatique (Mathilde Harel, novembre 2018).
Dal 2008 al 2014, la fotografa Elena Perlino, ben nota ai «Rencontres de la photographie en Gaspésie», percorre l’Italia da nord a sud, documentando la vita delle donne vittime di sfruttamento sessuale. Nello stesso periodo viene pubblicato il libro Le Ragazze di Benin City, scritto da Isoke Aikpitanyi e dalla giornalista Laura Maragnani.
Elena e Laura hanno svolto un ruolo importante nell’indicarmi la strada da percorrere per la mia ricerca, iniziata nel 2016, proprio nel momento in cui la situazione è diventata ancora più drammatica, con una crescente domanda di ragazze sempre più giovani...
Dopo una serie di incontri, ho scelto di concentrarmi sulle testimonianze di tre giovani ragazze: Stéphanie, che grazie all’intervento di alcune donne al suo arrivo in Italia, è sfuggita alla tratta. Joy, caduta nelle grinfie dei trafficanti, ma che con coraggio è riuscita a fuggire e a chiedere aiuto e per completare il quadro, la voce della seconda generazione, quella di Sabrina Efionayi, desiderosa di scrivere e pubblicare la propria storia.
Tre storie positive, una scelta precisa. Ciò non significa ignorare il fatto che, oltre a queste donne, ne esistano altre, murate nella loro sofferenza, ancora intrappolate nei tentacoli dei trafficanti. Non dobbiamo dissimulare né evitare la dimensione inaccettabile della tratta.
Durante tutto il viaggio - da Roma, a Catania, da Castel Volturno a Palermo - attraverso le proposte della società civile e le iniziative di associazioni come NewHope, Action Women, BeFree, ho scoperto il vero significato della parola accoglienza- intesa come amore nel ricevere l’altro. L’ho appreso guardando queste donne italiane andare incontro alle persone, accogliendole, ascoltandole, prodigandosi in ambienti modesti, assolutamente convinte del potenziale di queste giovani che arrivano «a pezzi» ma con una grande forza vitale.
E a Palermo- città di sperimentazione e di resistenza - ho incontrato l’autrice e attivista Alessandra Sciurba che è indiscutibilmente in sintonia con il leitmotiv della mia ricerca quando dice, dopo un salvataggio in mare: «E loro ci salvano!».
Nel trattare questi temi ho voluto evitare a tutti i costi la dimensione sensazionalistica e «vittimistica», così come i riferimenti all’angelismo, altrettanto rischioso. Quando si affrontano temi così delicati, le insidie sono dietro l’angolo. Ma nonostante la serietà dell’argomento, volevo che il mio documentario fosse luminoso, che non spegnesse la speranza.
Quando vedo il modo in cui queste donne italiane guardano queste giovani, al di là dello spirito di sorellanza, noto ammirazione, fiducia e umiltà; mi aiutano a riscoprire il vero significato di «intermediarie», nel loro offrire un momento di benessere, un momento di incoraggiamento, poiché loro certamente conoscono la forza di queste giovani ragazze che portano con sé dei sogni e possono trasformare e arricchire il volto delle nostre società.
Per questo progetto, e spinta da questa riflessione, mi sono posta la sfida della scrittura poetico-politica, non per fare un film dal forte impatto, ma piuttosto per rivolgere un invito ad una riflessione collettiva, all’incontro con l’Altro, nella sua unicità, con la U maiuscola, di «Umano».
- Helen Doyle - Regista